It Takes Two
Un rapido sguardo su uno dei videogiochi più importanti e rivoluzionari degli ultimi anni sia per il genere co-op, sia per l'intero settore videoludico.
Capolavoro assoluto. Masterpiece epocale. 10/10 IGN. Il mio Game of the Year di quest'anno. Semplicemente sbalorditivo nella sua anarchia visiva e interattiva. It Takes Two rappresenta un prima e un dopo non soltanto per il genere co-op, ma per l'intero settore videoludico. Ma andiamo con ordine.
Il capolavoro di Hazelight Studios mi era totalmente sconosciuto fino a quando non ne sono venuto a conoscenza grazie ad un video dei Prodigeek, in cui lo si elogiava come un videogioco alternativo alla massa e ricco di piacevoli sorprese. Guardando poi i vari video trailer, gameplay e premi vinti, mai mi sarei aspettato di rimanere così affascinato visceralmente dal gioco, tant’è che l’ho già messo come il mio Game of the Year di quest'anno (difficilmente altri videogiochi lo scalzeranno). Quello che colpisce di un videogioco del genere è, innanzitutto, la sua creatività e varietà nel gameplay, la quale riporta il videogame al suo stadio primordiale di pura interattività, andando quindi contro l'ormai decennale deriva del medium che vuole imitare il cinema ad ogni costo con una grafica sempre più fotorealistica. Anzi, se lo si analizza attentamente, It Takes Two abbraccia fieramente il suo lato interattivo quanto il suo lato più squisitamente cinematografico e narrativo. La magnifica sinergia che si viene a creare nel game design, infatti, consente all'opera videoludica di Hazelight Studios di racchiudere il meglio di tutte le arti (audio)visive e di essere, a conti fatti, il vero anello di congiunzione tra Cinema e Videogioco, con buona pace dei tripla A.
Grazie al suo passato da regista (la sua filmografia è assolutamente da recuperare dal sottoscritto "filologo"), il game designer Josef Fares riesce quindi nell'incredibile impresa di spremere ogni potenzialità del medium videoludico e cinematografico, in modo da farle dialogare organicamente all'interno di un'opera che non nasconde di essere un grande luna park. Il viaggio dell'eroe, infatti, non nasconde la sua natura più ludica, anche perché lo scopo ultimo del videogioco, a differenza del Cinema che si è costruito un'aura più "impegnata" nel corso dei secoli, è quello di DIVERTIRE il videogiocatore. E nel farlo, Josef Fares applica la filosofia appresa girando i suoi film, ovvero facendo cinema: l'immersione videoludica non deve essere lunga, quantitativa e strabordante, ma corta, intensa e creativa. L'ex regista si è posto, infatti, un quesito molto semplice e assai esistenziale sul settore videoludico: se il 90% dei videogiocatori mondiali non arriva mai alla fine di un videogioco proprio perché giocare anche solo per un totale di 30 ore è impegnativo per chiunque, non è meglio asciugare il minutaggio del videogioco e investire tutte le proprie risorse nel game design nudo e crudo, in modo che il giocatore arrivi soddisfatto fino in fondo all’esperienza videoludica e non stanco e sfinito? La risposta alla domanda retorica direi che è chiara e lampante, per questo nel genere co-op il game designer svedese ha trovato la chiave interpretativa definitiva per il medium videoludico, ossia giocare appassionatamente INSIEME, INTENSAMENTE e BREVEMENTE. Le ore dei suoi giochi, infatti, non superano le 15 ore se uno non vuole andare a caccia di achievement, minigiochi e easter egg. E tutto ciò non fa che invogliare il giocatore anche più adulto a prendere in mano il controller/mouse+tastiera per giocare insieme al proprio amico/partner/figlio/a a un'avventura che non dovranno portare avanti per un anno intero tra impegni vari da ambo le parti.
L'altro elemento che quindi invoglia un videogiocatore a concludere It Takes Two - oltre alla sua breve durata - è l'interattività che si viene a creare tra sé, il gameplay e il proprio compagno/a di viaggio. Un videogioco può essere breve ma anche noioso, ma se invece ti spinge ad unirti sinergicamente con l'altro giocatore per affrontare un gameplay vario, dinamico, creativo e al limite della follia, allora il coinvolgimento e il divertimento che scaturisce da quel mondo virtuale non può lasciarti indifferente. La vera rivoluzione di It Takes Two è difatti anche analogica. In un mondo videoludico sempre più focalizzato sui solitari singleplayer lunghi e alienanti o sui multiplayer dopanti e frenetici, It Takes Two rappresenta la giusta via di mezzo che riporta i videogiocatori a giocare veramente insieme, anche fisicamente nella stessa cameretta/sala se si gioca in locale (i famosi couch co-op game). Il gioco infatti costringe di nuovo a guardare in "faccia" il proprio interlocutore gamer come si faceva negli anni 2000 con gli split screen di PS3/Xbox 360 in sala con gli amici, o nelle sale giochi anni '80 che erano un ritrovo sociale in cui sfidarsi, gioire e imprecare insieme sulle proprie vittorie e sconfitte. Quello che impone Fares ai videogiocatori è, quindi, una vera e propria rivoluzione nell'approccio al videogioco come homo ludens, quasi come se fosse un ritorno indietro nel tempo fuori tempo massimo che, in realtà, guarda con estremo entusiasmo il futuro del gaming nel suo rivoluzionario game design. It Takes Two è un ritorno posato, delicato e al tempo stesso eccitante e glorioso al giocare assieme, che si allontana dall'ormai alienante solitudine del videogiocatore rinchiuso in un mondo virtuale infinito singleplayer, ma anche dalle esagitate sessioni multiplayer su Discord e affini, dove è la tristezza o la caciara a farla da padrone. Sia chiaro, Fares non critica il modello attuale di gaming che può anche dare una felice "pace dei sensi" ai videogiocatori, che dopo ore e ore di studio o lavoro vogliono soltanto svagarsi e alienarsi in modo sano prima di andare a dormire. Quello che Fares propone, però, è un'alternativa a questi modelli positivi o negativi che siano, ovvero una terza via in cui possono convivere la bellezza dell'immersività del singleplayer e l'eccitazione interattiva del multiplayer. Il game designer svedese suggerisce, quindi, soltanto un approccio qualitativo e non quantitativo al videogiocatore moderno: invita solo un/una amico/a, un/una parente, un/una conoscente, un/a tuo/a figlio/a, il/la tuo/a partner a giocare con te per tenerti per mano - anche virtualmente - nel corso di una breve avventura capace di farti ridere, piangere, divertire, imprecare e riflettere. Come scrive lo stesso Huizinga nel suo libro Homo Ludens, l'essere umano ha sempre giocato per uscire dall'ordinario ma anche per regolare i propri sistemi culturali; e nel farlo, l'ha sempre fatto insieme ad un altro essere umano, perché è dall'interazione collettiva in un gioco che un legame si può rafforzare o rinsaldare. It Takes Two nel suo essere un divertentissimo luna park senza vergognarsi di esserlo, ha prodotto in realtà, grazie alla sua pura forma interattiva, una profondissima riflessione sul medium videoludico degna di essere analizzata dai trentennali game studies. In un apparente luna park ipercinetico, dunque, si nasconde una raffinatissima rivoluzione videoludica che ha rivitalizzato il genere co-op e non solo. Non è un caso che il capolavoro di Hazelight Studios sia uscito proprio durante la pandemia di COVID-19, quando tutti gli esseri umani erano interconnessi virtualmente ma disconnessi nella vita reale. Chi era chiuso in casa, quindi, ha potuto giocare col proprio coinquilino/famigliare in locale alla magnum opus di Hazelight Studios, ritrovando così una (video)ludicità perduta e/o un modo per appassionare un non-giocatore ad un prodotto videoludico. Chi invece era separato fisicamente dai propri amici/partner e costretto a stare solo nella sua dimora, ha potuto comunque utilizzare la funzione online co-op di It Takes Two per gioire - insieme all'altro compagno di viaggio - di un videogioco che parla di una disconnessione di due individui che dovranno riconnettersi per salvare il loro mondo. L'elemento narrativo e ludico cadono dunque a fagiolo in un periodo fertile per un passaparola che determinerà il successo del videogioco negli anni a venire, oltre che a concretizzare materialmente la sua filosofia: divertirsi qualitativamente, riconnettersi con sé stessi e con gli altri, affrontare nuove sfide divertenti mai viste prima, rigiocare tutto da capo. Il capolavoro di Josef Fares è dunque la celebrazione massima del concetto di homo ludens, una vera e propria rivoluzione antropologica all'interno del mondo videoludico capace di battere nuovi terreni con scelte di game design sempre creative e mai banali, capaci quindi di andare oltre i confini dell'intrattenimento virtuale a cui siamo abituati oggi. La missione videoludica di Fares è dunque una visione chiara: andare oltre il binarismo di single e multiplayer, rinnovare profondamente il lato gameplay per renderlo unico e divertente, costruire un'intelligente amalgamazione tra cinema e videogioco in grado di connettere emotivamente il videogiocatore con la storia narrata. Quello che costruisce Fares, dunque, è il videogioco definitivo, la sintesi ultima del medium videoludico e uno sguardo cinematografico alternativo all'interattività videoludica.
Cos'è quindi, nel dettaglio, ciò che rende così speciale e rivoluzionario un gioco come It Takes Two?
Le premesse narrative in realtà sono molto semplici e riviste già in migliaia di film. Due genitori - Cody e May - sono in procinto di divorziare e devono comunicarlo alla loro figlia Rose, ma quest'ultima non accetta la cosa e si rivolge ad un libro sull'amore pregando di farli ritornare insieme attraverso un incantesimo. Nel farlo, però, non si accorge che una sua lacrima cade su una delle due bamboline che tiene in mano, le quali rappresentano i suoi genitori. Vedendo che la preghiera non ha sortito alcun effetto sulla realtà circostante, fugge in lacrime nella sua stanza. Rose non si accorge che in realtà l'incantesimo ha funzionato, ma non come l'aveva previsto, infatti l'anima dei suoi genitori viene imprigionata nelle due bamboline. Cody e Mary, accorgendosi che non riescono ad interagire con la figlia dato che sono invisibili ai suoi occhi, saranno costretti a seguire a malincuore la terapia di coppia del libro dell'amore (interpretato dallo stesso Fares) per farli tornare insieme, e che li guiderà all'interno della loro stessa casa e giardino in un viaggio al limite della follia.
In una storia così semplice e rivista tante volte che ruota attorno a due genitori che dovranno ritrovare l'amore perduto per salvare la loro figlia, Fares ci costruisce attorno un magistrale game design che si intreccia perfettamente con la storia e le tematiche che vuole affrontare. Più volte nel corso dell'avventura platform-adventure il libro dell'amore invoca la sacra regola del "COL-LA-BO-RA-TION", in cui i due genitori saranno costretti per "sopravvivenza" - non mancheranno boss fight mozzafiato - a collaborare seriamente se vogliono arrivare a Rose prima che le succeda qualcosa di grave data la loro assenza fisica e cosciente in casa. Bisogna quindi mettere da parte le differenze per raggiungere un obiettivo comune, ma anche ritrovare un'affinità perduta che ha portato Cody e Mary a distanziarsi emotivamente sempre di più l'uno dall'altro. Attraverso il gioco, la pura ludicità dell'interattività simbiotica tra i due genitori in miniatura e l'esplorazione del proprio nucleo domestico da una prospettiva miniaturizzata, si pongono le basi di una riscoperta interiore che Fares vuole mettere in scena per riavvicinare due persone che non si tollerano più. Bisogna quindi ritornare bimbi per riscoprire le basi psicologiche e relazionali per instaurare un dialogo costruttivo con l'altra persona; ed osservare tutte le costruzioni create per la figlia e gli oggetti simbolici che hanno suggellato l'amore tra i due coniugi, è funzionale ad un geniale controcampo fino a quel momento non preso in considerazione da Cody e Mary, che si dovranno rimettere in discussione su come hanno interpretato la loro vita fino a quel momento. Alla mutazione fisica - più piccoli e più bassi - segue una mutazione psicologica scandita egregiamente da 7 capitoli che esploreranno ogni aspetto della vita di Cody e Mary. In questo senso il level design caratterizzato da una frenetica e folle ludicità da luna park è, in realtà, un'enorme e lunga pausa di riflessione in cui i due protagonisti si confronteranno, litigheranno, rideranno e collaboreranno per riscoprire finalmente sé stessi in tutto per tutto. È quindi dall'azione ipercinetica che passa la riflessione e non il contrario, quindi è attraverso la meraviglia del giocare assieme che si attua una vera e propria terapia di coppia rimarcata dal goliardico libro dell'amore chiamato "Dr. Akim", che da geniale comic relief scandirà i tempi e i modi con cui i due coniugi dovranno riunirsi all'insegna dell'amore. Il tutto è forse un po’ troppo retorico e semplificatorio nel risolvere una crisi di coppia, eppure l'integrazione del contesto narrativo con quello videoludico è geniale per come riesce pedagogicamente a trattare tematiche pesanti con una leggerezza talvolta anche autoironica, proprio per smuovere i cuori spezzati di Cody e Mary. Non è un caso che It Takes Two sia stato definito il videogioco perfetto per le coppie, proprio perché ha suscitato una gamma di reazioni che vanno dal pianto alle grasse risate; ergo la sapiente alternanza di momenti toccanti e profondi - talvolta anche traumatici - con quelli più burloni e folli alla fine è riuscita nel suo intento di far divertire fino allo sfinimento il giocatore (“accoppiato” e non), ma anche di farlo riflettere su ciò che stava giocando, soprattutto se coinvolto in prima persona dalle tematiche trattate dalla storia scritta da Fares. La genialità del game design sta anche in questo, ossia quello di aver collegato la macrotrama del possibile divorzio con le microtrame dei singoli livelli/capitoli pieni di personaggi di finzione al limite della follia, per poi integrarla in un game design che nella sua estrema dinamicità dà tutto il tempo al giocatore di metabolizzare la narrazione che coinvolge la coppia, che come il giocatore cresce, sbaglia e impara nella sua bizzarra avventura simile ad un Toy Story. Nella gestione del ritmo, quindi, ci troviamo di fronte ad un videogioco profondamente cinematografico, che riesce abilmente a gestire tutti i tempi micro e macro narrativi, i quali rendono il ritmo di gioco mai noioso, prolisso e pesante. L'iper stimolo dell'interattività videoludica rivoluzionaria di It Takes Two si intreccia quindi perfettamente con le cutscene narrative inserite oculatamente per far respirare il giocatore, in modo da restituire un equilibrio cinevideoludico che possa far convivere entrambe le arti - Cinema e Videogioco - senza che queste si fagocitino a vicenda.
La genialità narrativa e del game design, inoltre, sta anche nella straordinaria mescolanza dei generi videoludici che rende il gameplay sempre coinvolgente e vario, in cui i due giocatori co-op dovranno veramente mettere in gioco ogni loro abilità cognitiva e "motoria" per coordinarsi nell'intricato level design di It Takes Two. Josef Fares è un regista prima che game designer, e lo si vede chiaramente a partire dal registro registico che vuole conferire al suo capolavoro. La gestione degli split screen è geniale quanto in A Way Out nel distorcere le inquadrature e cambiare la loro posizione, fino a farle scomparire in certi punti quando i personaggi devono unire le loro forze in un particolare scenario di gioco. Il valore aggiunto rispetto all'opera precedente di Hazelight Studios, però, è la messa in scena fantasiosa che vuole ergersi come compendio di tutta l'arte videoludica, andando quindi oltre il genere platform action-adventure in cui è incasellato il gioco. Lo split screen è infatti al servizio di uno spettacolo pirotecnico come quello di una giostra infinita, che può decidere di passare all'improvviso da una visuale in terza persona con camera a spalla ad una isometrica o 2D in modalità picchiaduro, per poi catapultare il gamer in una situazione in cui dallo spostarsi a piedi bisogna immediatamente guidare veri e propri veicoli - anche animali - di terra, aria e acqua per superare un determinato ostacolo, specialmente se immerso nella natura. Il level design è quindi estremamente dinamico, ponendo i giocatori co-op in un ambiente di gioco imprevedibile in cui dovranno sviluppare una spiccata abilità adattiva ad ogni contesto di gioco e una profonda sinergia per combinare i propri poteri che varieranno di situazione in situazione (controllare il tempo è decisamente il potere più fico del gioco). L'interattività co-op di It Takes Two è rivoluzionaria proprio perché l'ambiente di gioco "multiplayer" non è mai statico e monolitico come in uno sparatutto ad esempio, ma è sempre in costante mutamento, tanto da rendere le sfide di ogni tipo un vero e proprio rompicapo, in cui bisognerà coordinare efficacemente il problem solving per gli "enigmi" platform con i riflessi per le parti più action. Unire i propri poteri - incredibili da qualsiasi punti di vista a partire dalla grafica - e combinarli sarà così essenziale e vitale per il superamento del livello, ma anche una vera e propria soddisfazione quando si scoprirà che l'unione fa veramente la forza, portando i giocatori a tifare per una ritrovata unione tra i due coniugi, che solo nella loro COL-LA-BO-RA-TION risplendono veramente nella loro fragile ma dolce umanità.
L'avventura videoludica creata da Fares è dunque un vero e proprio luna park con mille giostre - letteralmente - che dimostra quanto un eccellente game design possa elevare un comparto narrativo standard, ovvero quanto il COME sia sempre più importante del COSA quando si vuole lasciare un certo tipo di esperienza sia ad uno spettatore, sia ad un videogiocatore. L'elemento attivo e interattivo di It Takes Two è quindi quel valore aggiunto che conferisce forza ad un'opera audiovisiva che potrebbe vivere di puro gameplay, proprio perché dietro al suo impianto tecnico - la grafica degli scenari è semplicemente sbalorditiva - si è realizzato uno studio enorme su cosa voglia veramente l'homo ludens degli anni 2020, ormai saturato da videogiochi triti e ritriti. Come doppia A con uno spirito fortemente indie, quindi, It Takes Two rivendica l'importanza della parte interattiva del videogioco, ossia il puro game design, che è sempre ciò che fa la differenza tra un buon videogioco e uno brutto. Il capolavoro di Hazelight Studios rappresenta quindi la quintessenza del videogioco, il suo punto di arrivo definitivo, soprattutto quando omaggia il suo stesso medium disseminando vari minigiochi per tutti e i 7 livelli, che possono passare da un videogioco a 16 bit coi carri armati a una corsa con le lumache, da una sfida con note musicali a una partita di scacchi.
In conclusione, la magnum opus di Josef Fares dimostra quanto il videogioco possa ancora offrire come opera artistica in sé, dimostrandosi un ottimo ponte tra la vecchia era incentrata sulla pura interattività e la nuova che punta sempre di più ad emulare il Cinema. Nonostante It Takes Two non sia un videogioco perfetto - a livello narrativo e anche di gameplay verso il finale è un po' tirato via - credo sia uno dei capolavori più importanti dell'ultimo decennio e un ottimo spunto su cui costruire una rivoluzione artistica in grado di esplorare nuove frontiere dell'interattività videoludica. Finché aziende come Hazelight Studios avranno il via libera per sfornare altri capolavori come sembra essere la loro ultima opera Split Fiction, altri ottimi game designer come Fares avranno finalmente il coraggio di uscire allo scoperto, per ridare finalmente speranza ad un settore in crisi che necessità più che mai di opere del genere capaci di spremere fino in fondo l'illimitata creatività del mondo dei videogiochi.
PS: ringrazio Federico per avermi accompagnato in questo splendido viaggio in It Takes Two.
Pagella videoludica
Storia: 8+
Gameplay: 10
Grafica: 9-
Rigiocabilità: alta





















